Rugby Spot Ignoranza

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I dolori del giovane Rugby Italiano

Posted by Giorgio Pontico su 29 settembre 2009

Stavo riguardando le foto della mia escursione in Nuova Zelanda e mi è venuto in mente che avrei dovuto scrivere qualcosa rispetto a quel poco di rugby che ho visto laggiù. Sfortuna infatti volle che nella regione di Auckland non si giocasse alcun match della Air New Zealand Cup, la vecchia NPC.

Nel tentativo di trovare una via d’accesso per arrivare sulla cima di Mt.Victoria, a Devonport, mi sono imbattuto in quella che sembrava essere una partita di minirugby. I ragazzini non avranno avuto più di 10 anni: come i loro pari età italiani anche questi avevano due gambe, due braccia, una testa e tanta voglia di divertirsi.

Piccoli Kiwi crescono

Piccoli Kiwi crescono

Eppure qualcosa di diverso c’era. Qualcosa che ai nostri pargoli nessuno sembra in grado di insegnare: il killer instinct. Se puoi segnare una meta la fai. Non cerchi la precisione nel passaggio, non ti perdi nel gesto tecnico fine a sé stesso. Ce lo aveva detto anche Giampiero Granatelli al corso allenatori. Aveva ragione.

Di buono c’è che la FIR sembra essere consapevole di questo problema che colpisce il nostro rugby direttamente alle radici. Siamo indietro di almeno 7-8 anni rispetto alle nazionali di vertice. Il movimento di base si regge sui vecchi valori del rugby amatoriale ed è stritolato dalla burocrazia.

In Inghilterra per svolgere un campionato equivalente alla nostra serie C è sufficiente registrare la squadra presso la Union locale, che poi organizza i campionati e fornisce gli arbitri. Non sono richiesti cartellini o visite mediche. La responsabilità è del giocatore fino a quando non si arriva alle categorie di professionisti.

D’altronde nessuno mi impedisce di giocare a calcetto con gli amici, perché dovrebbe accadere con il rugby? Stiamo indietro anche sotto questo punto di vista.

Permettiamo alle squadre di Super 10 e Serie A di imbottirsi di stranieri di dubbio valore, mentre in Serie C un muratore moldavo non può giocare a meno che non sia il 22esimo in lista. C’è qualcosa che non va, ma qui la Federazione sembra essere sorda.

E’ un movimento giovane, di belle speranze, ma terribilmente mal gestito quello italiano. Se alla diffidenza con cui ci guarda la stampa calciofila sportiva aggiungiamo questi errori banali, dettati dall’ingenuità, non faremo altro che renderci ridicoli. Si vada quindi alla RFU o alla NZRU e si prendano appunti. Si eviti magari la ARU, perché non sono capaci neanche di organizzare un campionato nazionale senza che diventi controproducente dal punto di vista economico.

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Italiani, popolo di oriundi e di equiparati

Posted by Giorgio Pontico su 6 luglio 2009

Le leggi del rugby, queste sconosciute. Ogni volta che la Nazionale si trova ad affrontare un test match o una partita del 6 Nations il popolo dei rugbysti italiani si spacca a metà: il 50 per cento tifa esclusivamente i giocatori nati e cresciuti nel Belpaese mentre i rimanenti si “limitano” a tifare tutti gli azzurri che scendono in campo, indipendentemente dal luogo natìo.

Nonostante la Storia sia una materia curricolare in tutti i cicli scolastici c’è chi si ostina a far finta di non conoscere l’epopea dei migranti italani, durata dalla metà dell’800 fino agli anni ’60 del secolo scorso. La legge dello Stato Italiano riconosce infatti il diritto di cittadinanza a tutti i discendenti degli emigranti attraverso lo Ius Sanguinis: in poche parole se un argentino riesce a dimostrare l’italianità di un suo bisnonno può ottenere la cittadinanza italiana, acquisendo gli stessi diritti civili concessi a chi in Italia c’è nato. Volenti o nolenti la legge è questa e come tale va rispettata. Va bene all’IRB, va bene ai selezionatori, che vada bene ai tifosi.

L’esempio più recente è quello di Craig Gower, giocatore più che trentenne chiamato a vestire la maglia numero dieci della nostra nazionale, che dopo l’addio di Dominguez non ha mai avuto un rappresentante degno (se non, a sprazzi, il miglior Ramiro Pez).

Gower è nato e cresciuto in Australia. Ha giocato una vita a Rugby League, versione con 13 giocatori dello sport cui siamo abituati. In Australia è una celebrità: ha vestito per 14 volte la maglia dei Kangaroos, selezione australiana di Rugby a 13.

Come tanti altri giocatori di League arrivato ad un certo punto della carriera ha deciso di cambiare aria, e anche sport, passando alla versione Union con quindici giocatori, e più zeri sul contratto. Come Lote Tuqiri (ora licenziato dall’ARU e sicuramente in procinto di approdare in un campionato europeo) e tanti altri prima lui ha effettuato la scelta che gli anglofoni chiamano to switch codes, cambiare codice di gioco.

Fortuna volle per noi che un nonno di Gower fosse italiano, di Gubbio per la precisione, e come molti altri connazionali andò a cercare fortuna all’estero, in Australia. Per l’IRB questa ascendenza è sufficiente a rendere il buon Craig eleggibile per vestire la maglia azzurra.

D’altronde Gower era approdato a Bayonne, nel massimo campionato francese, dichiarando espressamente la propria volontà di servire la causa azzurra.

Poco importa se, adesso che la maglia l’ha ottenuta, lo stia facendo per i premi partita o per la gloria. L’importante è aver trovato finalmente un mediano d’apertura completo, che sappia difendere ma anche attaccare la linea. Nel rugby moderno è necessario creare interrogativi alla difesa avversaria per sperare di bucare la fatidica linea del vantaggio: ll line break, quella statistica propria di molti post partita della nostra nazionale che rimane quasi sempre a zero.

Negli ultimi anni l’unico giocatore che aveva avuto questa capacità era stato l’italo-argentino Ramiro Pez: numero dieci talentuoso che però non è mai riuscito ad esprimere al meglio il suo potenziale.

Accantonato Pez dopo l’ultima RWC, lo scienziato pazzo Nick Mallett, allora neo allenatore dell’Italia, aveva proposto Andrea Masi, un ottimo primo centro, nel ruolo di mediano d’apertura: un disastro.

E’ stata poi la volta di Andrea Marcato, eterna promessa del nostro rugby. Buon calcio, difesa pericolante e nessun rischio preso in attacco. Veder passare l’ovale da fermo, da un giocatore di livello internazionale, non fa una bella impressione, soprattutto visto il palcoscenico in cui ci si trova.

Nel frattempo Mallett aveva giocato la carta Luke McLean, anche lui oriundo. Un italo-australiano giovanissimo, già campione del mondo under 19 con la sua nazionale d’origine, chiamato a dare un senso al reparto arretrato degli azzurri. Non male, ma per competere a questo livello non può bastare. Luke è buon estremo, con un calcio potente. Non è il nuovo Chris Latham ma è decisamente meglio di quanto la scuola ovale nostrana abbia da offrire. Attualmente non ha rivali per la maglia azzurra numero 15.

Adesso è il turno di Gower, che se continuerà a giocare come visto nei due test con l’Australia e nella fantastica sconfitta con la Nuova Zelanda (fantastica perché abbiamo concesso solo 3 mete ai tuttineri e finalmente abbiamo visto i nostri 3/4 giocare) avrà il numero dieci tatuato sulla schiena per un bel po’. Forza Italia, C’mon Italy.

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